tutti smart

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Con questa nota vorrei proseguire la mia riflessione sulla Città di Pisa, dopo la presentazione del libro di Paolo Fontanelli.

 

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Per compiere ogni piccolo passo, sperando che sia in avanti, abbiamo bisogno di avere una immagine del futuro, una idea sul dove vogliamo andare. Parlando del futuro della nostra Città, mi pare di cogliere che nei pochi generosi tentativi di pre-figurazione di futuro si prendono in considerazioni due elementi, che sembrano essere assunti come “invarianti”: la diffusione del modello amazon, per il quale si prevede una radicale trasformazione della rete cittadina del commercio, una rete, si badi, che per un secolo ha costituito la nervatura vitale della socialità urbana; una accelerazione decisa del processo di de-centramento del lavoro, con il modello del “lavoro agile”, smart working, destinato a diventare il modello prevalente e tendenzialmente esclusivo del lavoro.

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Prima di intraprendere una riflessione sul come dobbiamo attrezzarci per affrontare questi processi, per cercare anche di governarli, voglio premettere, in forma di inciso, che è necessaria una grande cautela: troppe volte la rappresentazione del futuro, dalla quale dipendono le scelte per presente, è stata condizionata e distorta, forse per effetto della contaminazioni ideologiche che pesano sul nostro modo di vedere la realtà. Molte scelte dei primi anni del terzo millennio sono state fatte perché gran parte della politica aveva gli occhi annebbiati da un mito, quello della crescita continua, del quale si ignoravano le bolle e i vizi. Mega-infrastrutture che avrebbero supportato una crescita illimitata della mobilità sono state rese ridicolmente inutili dal concantenarsi della crisi del terrorismo, della finanza, poi della pandemia. Credo sia più prudente cercare di cogliere le linee di tendenza in quello che accade, senza estrapolarne visioni generali e previsioni di medio e lungo periodo, che in questo momento nessuno è in grado di fare. Le fanno forse certi investitori di livello planetario, che poi, per dare forza alle previsioni, mettono in atto anche strategie planetarie per realizzarle praticamente. Ma chi pratica l'utopia del bon governo deve attenersi alla prudenza e al principio di precauzione: grandi visioni ma passi lunghi solo un pochino di più della gamba.

 

 

 

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I due processi sono in corso e vanno avanti al galoppo. Di più, si tratta di una modellistica pervasiva, che si estende al di fuori dei settori in cui si applica: lo smart working è il modello che dilaga nella fruizione dell'intrattenimento, rischiando di soppiantare cinema e teatri. Dilaga nella formazione, con la didattica a distanza e con modelli sofisticati di autoapprendimento supportato dal web; dilaga nei rapporti amicali e perfino in tutto quello che è destrutturabile e decentrabile nei rapporti sessuali; l'internet delle cose, per adesso ancora in gestazione, farà dilagare il modello anche in tutte le attività pratiche della nostra esistenza quotidiana. Accadrà nel campo della somministrazione quello che già sta accadendo nei consumi ordinari: attraverso un provider raggiungibile via web (poco importa se dal pc, dallo smart o da specifici dispositivi dedicati) si ordineranno i pasti. Questo è quello che ci preparano le tecnologie, questo è quello che il mercato ci imporrà come modello economicamente più accettabile: quello al prezzo minore sullo scaffale delle scelte per il nostro futuro. Dobbiamo accettare tutto senza fiatare, limitandoci a facilitare questi processi? Ricordo il titolo di un convegno del PSI, a Rimini: “Governare il cambiamento”. Il PCI criticò aspramente quel titolo, da cui pareva che il cambiamento fosse una “variabile indipendente”, un vettore incondizionabile ed esterno, una sorta di deità alla quale ci si poteva (e ci si può) solo prostrare, cercando in qualche modo di ingraziarsela. A questo si ridurrebbe il “governare”.

In realtà a noi sarebbe richiesto qualcosa di più. Disporre di strumenti predittivi, di capacità di analisi previsionale e di fantasia progettuale, dovrebbe essere solo la premessa per riuscire ad elaborare strategie per orientare il cambiamento, per piegarlo ai nostri bisogni, per ottimizzare i risultati di quell'algoritmo dove sono ben individuate le conseguenze attive e passive, i costi e i benefici, le opportunità e le minacce.

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Se non faremo nulla le nostre città saranno distrutte. Anche se ci limiteremo a facilitare i due processi / vettori i risultati saranno questi. E non faremo un buon servizio a quelli che verranno dopo di noi. Sbagliano certo coloro che demonizzano il modello “amazon”, o la consegna dei pasti e della spesa a domicilio; coloro che rifiutano lo smart working o lo scambiano per il demonio. Ma sbagliano di più coloro che in nome della presunta modernità accettano che questi processi vadano avanti senza regolamentazione, evadendo le tasse, sottraendosi alla contrattazione sindacale per i dipendenti che impiegano, riempiendo le strade di mezzi che hanno fretta di arrivare; distruggendo la rete di quelli che forse romanticamente sono stati chiamati centri commerciali naturali, dopo la fine dei quali però non riusciamo a vedere una immagine di città che non sia quella di un grande museo attorniato da torri spettrali, tutte ben cablate e dotate di wifi.

 

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Ci si chiede, non senza drammatica apprensione, se torneranno i pulman con i turisti, se torneranno gli studenti e se avremo ancora i bar e i ristorantini affollati di persone. Credo che quel mondo ci piaceva e continua a piacerci. Avremmo voluto un po' piu di ordine, un po' piu di qualità, una maggiore attenzione alla qualità del cibo e delle sue filiere. Ma quel modello ci piaceva e ci piace. D'ora in avanti il nostro impegno dovrebbe essere quello di favorire il nuovo, di utilizzare le nuove opportunità offerte da smart working e home living (vivere restando in casa), senza rinunciare alle nostre città e ai nostri modelli relazionali, all'aperitivo e alla partita a carte, allo spettacolo in presenza, ai ragazzi che giocano a pallone sulle piazze e nei giardini: sono tutti elementi valoriali da tenere al riparo dalle minacce.

Dovremo avere, per esempio, una università capace di massimizzare la sua capacità di essere fruibile a distanza: obbedendo ad una sorta di prinicipio di sussidiarietà, possiamo e dobbiamo, secondo me, fare a distanza tutto quello che ragionevolmente può essere fatto meglio che in presenza. A questo punto, il “di più”, le prefernzialità della Università di Pisa, corrisponderà al risulto di due doti: la sua capacità di dare servizi a distanza (tendenzialmente tutte le università avranno presto lo stesso indice), la capacità di dare servizi in presenza: questo sarà il vero plus, l'elemento capace di fare la differenza tra una università e un'altra. E questa riflessione è anche'essa estendibile a tutto quello che la città è in grado di offrire.

 

 

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Non è il momento di buttare alle ortiche il lavoro di decenni, quello per costruire città dei cittadini e della cittadinanza: capaci di darsi programmi e progetti; di stabilire orari, di avere delle piazze per il mutuo ascolto. Dove civitas sia anche comunitas, dove il diritto di ogni cittadino è la premessa della sua capacità/possibilit di stabilire rapporti con gli altri. Dove “il prossimo” non sia solo un soggetto astratto come in un gioco di ruolo su una piattaforma virtuale. Questa è la Pisa che faticosamente abbiamo cercato di costruire, in un disegno che ha visto momenti di successo, difficoltà e fallimenti. Questo è il cammino che deve essere ripreso

 

 

 

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